Virginio Bianchi secondo DINO CARLESI

Presentazione scritta nel 1980 da Dino Carlesi in occasione delle mostre retrospettive di Virginio Bianchi nel decennale della morte.


Girando nella provincia toscana, fuori dai conosciuti canali del mercato e della critica ufficializzata, si possono ancora incontrare, magari sepolti dall’oblio, artisti ed opere degne del massimo rispetto, fedeli alla storia del proprio tempo ma anche carichi di accenti e di valori da non ritenersi superati, almeno finché prevarranno i canoni e gli strumenti di valutazione legati alla nostra cultura moderna e, quindi, disponibili ancora per l’accettazione della tela dipinta, cioè della superficie riflettente il rapporto visivo e riproduttivo con la natura.
Chissà cosa accadrà quando l’arte tenterà definitivamente di apparire sotto le vesti di un concetto puro generalizzato, assurdo ma drammatico, o quando il gesto brucerà in un attimo un’emozione collettiva, respingendo nel gretto conservatorismo perfino un sacco o un armonioso cretto di Burri o un lancinante taglio di Fontana!
Chissà che noi non si sia gli ultimi interpreti di un’arte legata ad un umanesimo che era solito realizzarsi per forme similari a quelle visibili o almeno riconducibili ad una oggettualità che ruotava intorno alle cose dell’uomo, ai sentimenti dell’uomo, ai simboli dell’uomo.
Che la pittura di Bianchi abbia suscitato questi motivi di riflessione è già un fatto positivo e meritevole di discussione. Questo Bianchi, morto nel 1970, con una vita bruciata tutta in provincia, con lunghe pause improduttive ed improvvisi ritorni pittorici, che in tempo di guerra (nel ’41) manda al Premio Cremona una grande opera di impegno sociale, classicheggiante ma compositivamente ricca di intenzione e di movimento e che poi si concederà un lungo periodo di pittura paesaggistica e di idillio familiare, questo Bianchi, dicevo, appare degno di una considerazione postuma che dovrebbe essere ben superiore a quella che ebbe in vita.

Mistica della Battaglia - (Battaglia del grano)
Mistica della Battaglia
(Battaglia del grano)

1940
olio su tela
cm 255 x 350  -  100.4" x 137.8"

Una vita di pittore quasi solitaria, disobbediente com’egli era alle imposizioni ufficiali e in polemica anche con il potere estetico delle avanguardie commercializzate (quasi rivendicasse il diritto a rimanere un pittore di tradizione), Bianchi possedeva un eccellente mestiere e, benché risentisse del nascente postmacchiaiolismo, la sua prima esperienza grafica e cartellonistica ce lo rivela non disattento alla recente tematica futurista come anche ad una certa moda liberty o addirittura alle impaginazioni libresche di un De Carolis.
Questa sua formazione avveniva all’insegna della grande lezione francese dell’Ottocento, filtrata dalle sintesi formali e volumetriche di un Cezanne (forse non letto con la dovuta profondità), se la sua pittura dopo il ’35 (ricordo solo il Padule del ’40) è già cosí luminosa, materica, non naturalistica come i tempi e gli esempi imporrebbero.
L’uomo non era quieto ma vivace, insoddisfatto. Avvertiva forse il limite del provincialismo di cui era costretto a nutrirsi e l’apporto che gli sarebbe derivato se avesse avuto il modo ed il coraggio di muoversi verso altri lidi, ma forse la malferma salute e una cocciuta e celata sfiducia di fondo verso se stesso lo spingevano a restare, ad operare mutamenti solo nell’ambito di una poetica che correva inesorabilmente il rischio di farsi ripetitiva dei piú famosi modelli francesi e toscani.
Tuttavia Bianchi possedeva un alto magistero pittorico e molte tele rivelano quale eccellenza di risultati potesse egli raggiungere.
Nel dopoguerra, dopo una lunga pausa, le sue tele si impreziosiranno ulteriormente: qua e là faranno capolino, per esempio nei panneggi di alcune nature morte, perfino certe rigidità di tipo cubista oppure alcuni stupori metafisici, unitamente a taluni abbandoni morandiani. L’artista è eclettico: nello stesso periodo produce tele di diversa ispirazione a riprova di alcune sue incertezze nella via della ricerca.
Dal quadro “Le mondariso”, solenne per volumi e il controllato rispetto delle regole, passa a “Casa mia”, un gioiello fresco, libero, di alta fattura lirica.

Mondariso a riposo sull'argine - Prima versione
Mondariso a riposo sull'argine
Prima versione

1942-1950
olio su tela
cm 225 x 175  -  88.6" x 68.9"

Alla ripresa del ’58, e per tutto l’ultimo decennio di vita artistica, Bianchi scopre il gusto della sua libera creatività: i paesaggi sono sempre meno vincolati alla descrizione, anzi egli gioca con i colori, lascia addirittura scoperta la tela, pare che miri a sintesi diverse sempre con misurato equilibrio, senza fronzoli o sgrammaticature. C’è una lunga serie di tavolette di paesaggi che rivela questa sua storia interiore, questo suo procedere per sintesi, per intuizioni rapidissime, alla ricerca della luce nelle varie ore del giorno, con Paludi essenziali, profonde, ritmate con pennellate che non vivono piú in funzione della precisione vedutistica ma dell’intrico emotivo che Bianchi si porta dentro, preoccupato di una resa lirica piú intima, piú raccolta, non declamatoria.
Infatti l’uomo andava accentuando le sue chiusure, i propri isolamenti, avvertendo l’urgenza del nuovo ma sapendo forse di dover restare fedele al proprio respiro, al proprio passo di pittore lontano dalle “mode” ma anche estraneo alle problematiche inquietanti che avevano scosso l’Europa artistica con Picasso, con Leger o Mondrian.
Bianchi non tradusse il suo dramma esistenziale - che pur visse - in esasperati linguaggi di tipo espressionistico ma scandí, al contrario, il suo silenzio umano in forme placate e gratificanti le sue inquietudini, alla ricerca di un’armonia che egli credeva di intravedere negli aspetti della natura. Su questa strada egli trasferí le sue tensioni, andando oltre la banale effusione lirica o il piatto oggettivismo grafico, per penetrare a suo modo nella struttura delle cose e riportarvi un senso, una visione.
Non distruggeva l’oggetto, non dimenticava la collocazione spaziale, non scomponeva arbitrariamente i piani come i pittori dell’avanguardia: ma concludeva ugualmente in positivo il proprio minuzioso scandaglio, cioè si inseriva nel reale penetrandolo oltre le apparenze e ridando al linguaggio - a suo modo - lo stesso ruolo dirompente che poteva avere per altri artisti fuori della tradizione. Il ritratto di “Marco” del ’62, o “Il Rietto” o il “Palude” del ’67 rispondono a precise istanze creative, con una ricerca psicologica e cromatica che non si adegua semplicemente all’immagine ma la penetra e la supera, quasi che il ritmo compositivo o la cromia di un verde, di un viola di un azzurro facesse parte delle sue attese di artista, delle sue speranze, del suo destino.

Ritratto di Marco a quattro anni
Ritratto di Marco a quattro anni
1960
olio su tela
cm 43 x 33  -  16.9" x 13.0"

Anch’egli tendeva a chiarirsi la trama misteriosa di un oggetto o di un paesaggio ma li salvava nella loro struttura volumetrica e coloristica nello stesso momento che li arricchiva di luci sue, di segni personali, di guizzanti ipotesi luministiche.
Ci potremmo chiedere, di nuovo, se l’isolamento a Massarosa può aver nociuto al nostro artista o se, al contrario, non gli abbia consentito di difendersi meglio dalle tendenze arbitrarie del tempo e dalle tentazioni artificiali ed effimere, per concentrarsi sugli aspetti duraturi e universali della vicenda umana e del suo ambiente. È certo, comunque, che da quella solitudine non venne gloria al pittore anche se quel soliloquio creativo si concluse con una produzione ricca e dignitosa, dove all’enfasi dei troppi dilettanti Bianchi sostituí il senso della costruzione pittorica, con pennellate sempre capaci di togliere peso alle cose materiali, di macerarle, di scioglierle in luce. Moltissime tele sono qui oggi a testimoniare che quel suo impressionismo non fu epidermico e spontaneistico ma mediato da un magistero e una cultura che gli consentirono di non rassegnarsi passivamente ad una supposta armonia delle cose naturali (il che accade ad una mediocre moltitudine di neoimpressionisti) ma di impegnarsi in un’opera di trasformazione della banale oggettività, rimanendo fedele al suo io piú autentico, non declamando mai i colori con retorica e sfarzo, riportando addirittura a serenità cromatica nuova situazioni naturali di per sé anonime o fredde.
Mi pare che la migliore celebrazione di Bianchi stia nella riaffermazione della fedeltà al proprio mondo, nel riconoscimento che la sua compostezza interiore e il suo orgoglio di uomo travagliato trovano rispondenza esatta in una pittura vigorosa e asciutta che ci ricorda molto da vicino quella troppo dimenticata di un Raffaele De Grada o di un Giovanni March.

Dino Carlesi